Un tweet dell’attrice Alyssa Milano di qualche giorno fa che invitava a condividere episodi di molestia e violenza sessuale ha dato il via a un numero impressionante di messaggi caratterizzati dall’hastag #metoo. L’invito dell’attrice e di tutti coloro che hanno aderito all’iniziativa è di condividere la propria storia di violenza per far capire la portata di questo terribile fenomeno e dare finalmente voce alle tante, troppe storie non raccontate.
E così ecco che la mia bacheca di Facebook, Instagram e Twitter si è riempita di hastag e tristi storie troppo a lungo tenute nascoste. Chi per vergogna, chi per paura, chi per ignoranza, chi per paura di ferire: le persone che convivono con le conseguenze di eventi traumatici senza averli mai condivisi con nessuno è impressionante. Ho letto tutte le storie di amiche e conoscenti, ho sofferto per loro e mi sono arrabbiata, indignata e schifata per quello che un uomo (certo, ci sono anche uomini vittimi di violenza da parte di donne, ma non mentiamoci, questa resta pur sempre una minoranza rispetto alle tantissime donne molestate da uomini ogni minuto) si sente in diritto di poter fare a una donna.
Non pensavo di avere niente da condividere a questa campagnia, mi ritenevo fortunata a non essere mai stata vittima di molestia e violenza. Ma poi, impercettibilmente, due ricordi sono emersi nella mia memoria. Ricordi a lungo seppelliti o rimossi.
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Era una domenica in tarda mattinata e Big Brother ed io tornavamo dalla messa. Avrò avuto 7,8, 10 anni, sicuramente ero ancora alle elementari. All’epoca il mio paesino alla periferia di Milano era un posto tranquillo, nella mia vita di bambina i pericoli sembravano molto lontani. Era ancora l’epoca in cui giocavo al parco da sola, sparivo per ore senza che i miei sapessero dove fossi, e andavo a casa di amichetti conosciuti da poco senza sapere nulla della loro famiglia. Certo, gli ammonimenti dei genitori c’erano, ma i pericoli per noi erano solo teorici. E così quella mattina, mentre Big Brother ed io attraversavamo il parco per tornare a casa, io procedevo spedita, molto più avanti di lui, in tutta tranquillità.
Il mio palazzo ha un’entrata posteriore che si affaccia proprio sul parco ed è usata poco, all’epoca sicuremente meno di ora. Mentre arrivavo al cancello e aspettavo Big Brother con le chiavi, ecco spuntare dal nulla due uomini che, con la sicurezza degli adulti nell’approcciarsi a una bambina, si dichiararono poliziotti, mi mostrarono un distintivo (che io all’epoca credetti vero, ma che col senno di poi si rivelò uno stemma di una squadra di calcio) e mi invitarono a seguirli. Ero confusa da quella inaspettata interazione, confusa tra il classico avvertimento di “non parlare con gli sconosciuti” e la necessità di rispettare un’autorità come un poliziotto. Feci un passo nella loro direzione, sicuramente intenzionata a seguirli, del tutto ignara del pericolo che molto probabilmente mi aspettava a un metro di distanza. E poi ecco materializzarsi mio fratello, che senza dare troppo peso alla cosa (o almeno, questa fu la mia impressione di allora) mi intimò di entrare nel cancello e tornare a casa. I due non ci seguirono, lui non fece mai menzione di questo incidente ai miei genitori e io lo rimossi dalla memoria.
Era il gennaio 2010 e rientravo dal mio semestre di scambio ad Adelaide. Avevo lasciato l’Avvocato per l’ennesima volta, e con il cuore a pezzi mi apprestavo ad affrontare la seconda tratta del volo che mi avrebbe riportato a Milano. Lasciato alle spalle il corto (6h) Adelaide-Singapore, mi ero appena imbarcata sul Singapore-Milano. Ricordo ancora che sedevo nella parte sinistra dell’aereo, lato corridoio. Accanto a me sedevano due giovani italiani, avranno avuto sui 25 anni. Stanca, triste e ansiosa di arrivare a casa, non vedevo l’ora di potermi riposare un po’, ma nell’attesa che il segnale delle cinture allacciate si spegnesse scambiai due chiacchere con il mio vicino di posto. Mi raccontò che lui e il suo amico tornavano da un viaggio nell’Asia sud-orientale, mi chiese da dove venivo, dove andavo, e cose così. Normali chiacchere superficiali tra vicino di posto, insomma, ma ricordo benissimo che gli dissi chiaramente che ero stata in Australia a trovare il mio fidanzato.
Pochi minuti, chiacchere banali, nessun commento che potesse essere frainteso in nessun modo, nessun interesse da parte mia che potesse alludere ad altro. Il segnale si spense, potevo finalmente reclinare il sedile e cercare di doamire. Mi avvolsi nella mia coperta, la cintura allacciata sopra. Per quanto ci provassi, il sonno non arrivava – per la cronaca, non dormo mai in aereo – ed ero ancora pienamente cosciente, anche se in apparenza addormentata, quando sentii una mano – quella del mio vicino di posto – che piano piano si spostava dal bracciolo lungo il mio fianco. Lenta, subdola, quasi impercettibile, si infilò sotto la coperta, fino a trovare la mia pelle, quella tra pantaloni e maglietta. Panico! E ora che faccio? Ero bloccata su un pezzo di metallo per aria per le successive 12 ore: che alternative avevo? Potevo dargli una centra in faccia, potevo chiamare la hostess, potevo creare un putiferio. Cosa feci in realtà? Assolutamente niente. Presa dall’ansia, dalla paura, e anche dalla vergogna (!) mi irrigidii e nel mio finto sonno mi allontanai per quanto possibile da lui e dalla sua mano. Mi avvolsi ancora di più nella mia coperta e la mano sparì. Per le successive 12 ore non lo guardai più in faccia e, in tutta onestà, lui fece altrettando. Non ho mai fatto menzione a nessuno di questo incidente, e col tempo sono quasi a rimuoverlo dalla mia memoria.
La violenza è violenza. Sbagliata sempre e comunque. Non c’è sesso o situazione che la consenta (salvo per legittima difesa, ovviamente). Se sei uomo e in quanto tale ti senti in diritto o in potere di poter importunare, molestare o violare una donna, sappi che sei malato. Niente e nessuno ti dà il diritto di mettere in imbarazzo una donna. Niente e nessuno ti dà il diritto di spaventare una donna. Niente e nessuno ti dà il diritto di far sentire una donna in colpa per aver attirato le tue attenzioni. Niente e nessuno ti dà il diritto di toccare qualsiasi parte del corpo di una donna senza il suo esplicito consenso. Tutto questo vale ovviamente anche se a molestare e importunare è un uomo con un altro uomo, una donna con un’altra donna e una donna con un uomo. La violenza, in qualsiasi forma essa avvenga, è sempre sbagliata e in quanto tale deve essere condannata.
Last Updated on 01/07/2020 by Diario dal Mondo
Grazie per aver condiviso e ti mando un abbraccio… ho avuto esperienze diverse ma credo che un punto in comune a molte storie sia il fatto di non osare dire nulla per via dell’ansia, come e’ successo a te in aereo. L’idea che tutto sommato e’ meglio stare zitte, perche’ ci si vergogna. Lo capisco bene e condivido tutte le tue parole.
Grazie mille Giupy. Purtroppo la vergogna è quello che spesso e tristemente fa sì che molte donne non parlino. La speranza è che un passo alla volta possiamo arrivare alla consapevolezza che non siamo noi ad aver fatto qualcosa di sbagliato e a doverci vergognare!